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        La crisi

    che trasforma

 

 

Nella vita può capitare a chiunque di avere la sensazione di trovarsi di fronte ad un muro che ostacola il cammino e spendere tempo ad attribuirsi la colpa di non essere in grado di andare avanti, senza rendersi conto che, probabilmente, quel muro rappresenta soltanto la fine di quella strada. Possiamo definirla più o meno così la “crisi”, quell’esperienza-limite che ci disarma e che fa crollare le nostre convinzioni ed il nostro mondo.

Una crisi può nascere da una malattia fisica, da un incidente, da un’operazione chirurgica, da un evento traumatico, da esperienze di quasi-morte, da tentativi falliti di suicidio, dalla perdita di una persona cara, dalla fine di una relazione importante, da fallimenti personali, dalla perdita di beni materiali, dall’attraversamento di normali fasi evolutive, e così via. Questo stato di disagio interiore può declinarsi sia sul registro della normalità, se espressione di un cambiamento esistenziale fisiologico (per esempio, la pubertà, il matrimonio, l’ingresso nel mondo del lavoro, la nascita di un figlio, ecc.), sia sul registro della psicopatologia, se espressione del crollo di difese patologiche divenute inadeguate a fronteggiare il cambiamento; più spesso esso si colloca a cavallo tra i due registri.

In ogni caso, in un momento di crisi, accanto ad una dimensione oggettiva della sofferenza, ve ne è una soggettiva, ossia direttamente connessa ad un particolare tipo di personalità subente. La struttura della personalità, la sua organizzazione di idee, ricordi, sentimenti e stati d’animo può mettere la persona in condizione di essere maggiormente in grado di sopportare sofferenze non indifferenti oppure la può rendere meno tollerante anche per livelli minimi di angoscia.

Va chiarito che il termine “crisi” non è sinonimo di negatività. In realtà le afflizioni spesso aprono nuove vie; Nietzsche, infatti, affermava: “Quello che non mi uccide, mi fortifica”. La crisi, infatti, svolge importanti funzioni nella crescita e nella trasformazione della personalità, in quanto segnala che qualcosa non funziona più come prima. Ciò consente di passare da uno stato di organizzazione non più valido ad un altro più adeguato alle mutate condizioni dell’individuo e del mondo. Diventa dunque, assolutamente necessario comprendere il messaggio che un periodo di crollo emotivo vuol trasmettere.

Dinanzi ad una condizione di logorante tormento, Jung propone una visione trasformativa della crisi. Accettando la propria esistenza nella sua autenticità, senza negare o dimenticare dolori, fallimenti ed errori, sorge la possibilità di cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della vita.

Un ostacolo al processo di trasformazione è dettato dai fattori culturali nei quali siamo immersi: viviamo in una società dove la regola è sopprimere i sintomi e la sofferenza è un inconveniente della vita contro cui ribellarsi. L’effetto collaterale di questa impostazione socio-culturale è l’atteggiamento di rifiuto e ribellione al dolore, che è proprio quello più errato, in quanto inevitabilmente aggrava l’esperienza di crisi, degenerandola verso la malattia mentale o il rifiuto della vita. Abbiamo paura e vergogna di mostrare al mondo le nostre debolezze, per questo, siamo costretti ad indossare una maschera, soltanto per sentirci più forti e non correre il rischio di essere stigmatizzati ed esclusi dalla massa dei “sani” e dei “normali”.

In queste condizioni è tanto difficile guardarsi allo specchio, perché esso ci rimanda l’immagine di noi, esattamente come la vedono tutti. Con la maschera, invece, è più facile. Se soltanto provassimo a toglierla, lo specchio ci restituirebbe un’immagine di noi stessi inaccettabile, l’immagine della fragilità, l’immagine del fallimento. Ma, nonostante ciò, questa immagine così terribile è pur sempre l’immagine di noi, nella nostra più autentica espressione. L’unica possibilità che abbiamo per dare una svolta a questa vita inautentica, è cambiare il modo di guardare alla sofferenza. Se soltanto ci guardassimo meglio a quello specchio, riusciremmo a riconoscerci, nonostante la deformazione apparente dell’immagine, e magari, un giorno, arriveremmo a capire che forse il problema non è in noi, ma nello specchio. Forse ci accorgeremmo che è lo specchio che distorce e, pertanto, andrebbe cambiato. La soluzione è proprio questa: soltanto cambiando il nostro atteggiamento nei confronti della crisi, scopriremmo che essa non è un’esperienza-limite che ci disarma al fine di distruggerci, ma si concretizza come una possibilità di cambiamento, un’occasione per ricominciare una vita migliore, più vera, per noi e per gli altri. Il desiderio di una vita migliore, il sogno di ricominciare a vivere, porterà ad una ristrutturazione della scala dei valori, una reinterpretazione dei propri vissuti e una nuova visione sui problemi della vita.

È lo scontro con il proprio limite che può generare un insight, una illuminazione improvvisa, una soluzione inaspettatamente rivelatasi: con questa nuova consapevolezza, possiamo optare per una vita migliore oppure scegliere di continuare a peregrinare in cerca di quelle risposte che “ci fanno comodo”. La scelta spetta solo a noi.

 

Dott.ssa Maria Libera Tanese

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